Amarena di Trofarello – Piemonte

L’Amarena di Trofarello è prodotta nel comune omonimo ed a Moncalieri (Torino).

Nell’areale considerato sono presenti vecchie varietà; tra queste, la più diffusa è la Marisa, conosciuta anche come Amarena Barbero.
Essa è una cultivar di ciliegio acido con caratteri intermedi tra l’amarena e la ciliegia dolce, con picciolo lungo e frutto grosso; la buccia è resistente allo spacco e presenta un colore rosso scuro; la polpa è trasparente e di scarsa consistenza, ha un sapore dolce-acidulo con lieve retrogusto amarognolo.

Le Amarene di Trofarello sono frutti freschi botanicamente classificati come Prunus cerasus L. – ovvero ciliegio acido – a polpa acidula tenera e trasparente; in italiano sono chiamate amarene e, in piemontese, “griote”. Le varietà appartenenti alla specie Prunus cerasus L. si caratterizzano per le contenute dimensioni della pianta e la chioma espansa; i fiori compaiono prima delle foglie che sono rigide, larghe e appuntite. In particolare, le amarene appartengono al gruppo dei ciliegi acidi, hanno frutto di colore rosso chiaro, con succo incolore e forma depressa ai poli; il sapore è tipicamente acidulo, con note amarognole (Fideghelli C., Albertini A., 1981).
Nel territorio intorno al comune di Trofarello si è storicamente diffusa la coltivazione delle amarene, in particolare dell’ecotipo Amarena di Trofarello, una declinazione locale appartenente al più ampio gruppo varietà-popolazione Amarena del Piemonte, che ha assunto a seconda della zona denominazioni diverse.
L’Amarena di Trofarello ha una maturazione ritardata: la raccolta si protrae fino a metà luglio. Un limite di questa produzione è dato dalla scarsa resistenza alle manipolazioni ed alla conservazione.

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Cavolo Nero, Cavolo Palmizio, Cavolo Penna – Toscana

Il cavolo nero toscano chiamato anche cavolo palmizio o cavolo a penna è un cavolo molto resistente sia per quanto riguarda le avversità climatiche che per quanto si riferisce al terreno.
E’ davvero un peccato che questo gustoso cavolo sia poco conosciuto al di fuori della sua patria d’origine: la Toscana.
Questo ortaggio come tutti i cavoli appartiene alla famiglia delle Brassicacee il genere è Oleracea e il suo nome scientifico è Brassica oleracea varietà “acephala” cioè senza testa.
Infatti a differenza di altre varietà di cavolo non forma una “testa” compatta ma le sue foglie si sviluppano in orizzontale.
E’ un tipo primitivo di cavolo il cavolo nero toscano infatti quelle serrate e morbide teste che molti cavoli hanno sono il frutto di una selezione varietale che si è svolta nel corso di molte generazioni.
Non riesco bene a comprendere come questo cavolo rustico e gustoso che cresce in un periodo come quello invernale raro di verdure fresche sia così poco conosciuto al di fuori del suo luogo d’origine la Toscana meriterebbe davvero maggiore notorietà.
Fa quindi parte di quegli ortaggi rari che meriterebbero maggiore diffusione.
Se vuoi gustare il cavolo nero toscano durante l’inverno devi seminarlo in estate da giugno sino ad agosto e trapiantarlo nel luogo scelto circa un mese dopo la semina.
Le sue bollose foglie, più gustose dopo aver preso una leggera gelata forniranno un ottimo alimento vitaminico e saporito durante il periodo invernale.

Titolo

 

 

Salvatore Arnone – Tecniche Fotografiche

Sezione Premi “Una Vita per….”- Le Maestranze protagoniste dello Spettacolo
Salvatore Arnone
Per saper cogliere l’attimo, la luce, l’espressione e regalare emozioni.
Per aver portato con le sue foto “Fiumefreddo nel Mondo”, per dedicare la sua vita alla fotografia con estrema umiltà e professionalità.
Per non sottostare mai alle logiche di mercato ma seguire quelle dell’animo.

Valerio Faccini – Fotografo Emozionale

La fotografia mi affascina da sempre, è nata con me è dentro di me. Essa rappresenta la mia memoria, il mio modo di fissare per sempre le mie emozioni, scolpire il ricordo di attimi, luci, emozioni: la vita! Il mio sguardo più profondo sul mondo che mi circonda, un mondo fatto di tanti piccoli e grandi particolari; di attimi sfuggenti come uno sguardo, come una impercettibile smorfia sulle labbra ad annunciare un sorriso o un pianto comunque un’emozione un sussulto dell’animo umano: cosa c’è di più leggiadro del librarsi di una ballerina, dell’intensità espressiva di un attore, del fascino ostentato di una modella avvolta nella sua propria fragrante scia.
Cosa c’è di più affascinante di un intreccio di fasci di luce, della penombra di un’alba e della luminosità di un tramonto, di un gioco di colori, dell’intensità del contrasto tra la bianca accecante luce ed il nero profondo del buio. Ebbene cogliere e fissare questi attimi, queste espressioni, vuole significare dare eternità alla vita. Fissarli per sempre, estrapolandoli dal contesto ripetitivo e spesso piatto della quotidianità, è per me amare la vita, emozionandomi per sempre; condividerli con gli altri lasciandoli liberi di emozionarsi su quelle immagini è, per me, il modo più intenso e diretto di amare il prossimo: farlo partecipe dei miei sentimenti!
La fotografia è una forma d’arte, la tela bianca di un pittore che si colora fissandoci sopra un’esplosione di sentimenti con un pennello capace di impressionare la luce!
La foto non deve essere bella, deve comunicare, deve emozionare, deve catturare risucchiandoti dentro di essa! L’immagine è lì fissata per sempre, è li che ti comunica il ricordo di una scheggia di vita, colta da un altro per essere goduta da tutti!
La macchina fotografica è la continuazione del mio corpo, delle mie mani; l’obiettivo è la mia anima che cattura e si impossessa per sempre degli attimi fuggenti! Il click dello scatto è il lucchetto che suggella e imprigiona il mio amore per la vita! E’ per tutto ciò che ritengo la fotografia un’arte, il cui sublime fine, come nelle nobili espressioni artistiche, é parlare all’animo umano! Ed io amo comunicare!

Rosa Di Gorizia – Friuli Venezia Giulia

La natura, guidata dalla sapiente mano dell’agricoltore, ha trasformato un semplice seme in una sinfonia di sapore e colore, racchiudendo in non più di un pugno un tesoro da tramandare nei secoli e da custodire gelosamente, proprio come facevano le famiglie di un tempo.

Era il 1873, quando il barone austriaco Carl von Czoernig per primo scrisse della coltivazione di quella che egli stesso definì “cicoria rossastra”, ma non v’è dubbio che la tradizione affondi le proprie radici in periodi ben più remoti. Coltivata in larga parte nella piana tra Gorizia e Salcano, la Rosa ha successivamente subito l’allargamento degli insediamenti urbani, abbandonando il ruolo di punta ricoperto nell’economia cittadina e vedendo drasticamente ridotta la produzione. Ma anziché al declino, il nuovo contesto l’ha portata a ritagliarsi uno spazio tutto suo in un mercato di nicchia, allargato quasi esclusivamente alle province del Friuli Venezia Giulia, affermandola quale specialità locale per soli palati sopraffini. Ed è forse proprio questa la magia della Rosa di Gorizia®: l’essere riuscita non solo a superare il corso della storia, della trasformazione dei luoghi e del progressivo declino dell’agricoltura, bensì di aver fatto propri questi cambiamenti per sbocciare ogni anno con rinnovata energia e per illuminare ogni inverno con la sua vitalità e bellezza.

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Peperoncino di Calabria

Il peperoncino è una pianta (e frutto) appartenente al genere Capsicum (lo stesso dei peperoni dolci) della famiglia delle Solanacee. Secondo alcuni, il nome latino “Capsicum” deriva da “capsa”, che significa scatola, e deve il nome alla particolare forma del frutto che ricorda proprio una scatola con dentro i semi. Altri invece lo fanno derivare dal greco kapto che significa mordere, con evidente riferimento al piccante che “morde” la lingua quando si mangia.

Storia
Il peperoncino piccante era usato come alimento fin da tempi antichissimi. Dalla testimonianza di reperti archeologici sappiamo che già nel 5.500 a.C. era conosciuto in Messico, presente in quelle zone come pianta coltivata, ed era la sola spezia usata dagli indiani del Cile e del Messico. In Europa il peperoncino è arrivato con Cristoforo Colombo che l’ha portato dalle Americhe col suo secondo viaggio, nel 1493.
Introdotto quindi in Europa dagli Spagnoli, ebbe un immediato successo, ma i guadagni che la Spagna si aspettava dal commercio di tale frutto (come quello di altre spezie orientali) furono deludenti, poiché il peperoncino si acclimatò benissimo nel vecchio continente, diffondendosi in tutte le regioni meridionali, in Africa ed in Asia, e venne così adottato come spezia anche da quella parte della popolazione che non poteva permettersi l’acquisto di cannella, noce moscata ecc.
Il frutto venne così chiamato a causa della somiglianza nel gusto (sebbene non nell’aspetto), con il pepe. Il nome con il quale era chiamato in tutto il nuovo mondo era “chili” e così è rimasto.

Specie
Le specie più comuni di peperoncino sono:
• Capsicum annuum, che include molte delle varietà comuni, incluso il peperoncino comune in Italia, il peperoncino di Cayenna, e il messicano jalapeño
• Capsicum frutescens, che include tra gli altri il tabasco
• Capsicum chinense, che include l’habanero, da nel Guinness dei primati come il peperoncino più piccante del mondo
• Capsicum pubescens, che include il sudamericano rocoto
• Capsicum baccatum, che include il cosiddetto cappello del vescovo
Sebbene siano poche le specie di peperoncino comunemente usate in Italia, ci sono molti tipi di piante coltivate e molti metodi per preparare i peperoncini. Green e red bell ad esempio sono della stessa pianta, ma i verdi sono immaturi.

La pianta
Il capsicum annuum è un arboscello perenne che, in condizioni di clima favorevole, viene coltivato come annuale. Le piante si presentano sotto forma di cespuglio alti da 40 a 80 cm (a seconda della specie) con foglie di colore verde chiaro. I fiori sono bianchi a forma di stella a 5-6 petali con stami giallo tenue. Il peperoncino può essere coltivato anche in un balcone, e viene seminato verso febbraio, mentre i frutti si possono raccogliere in estate e in autunno. Andrebbero usati subito dopo la raccolta affinché non perdano le loro proprietà, ma si possono conservare anche sott’olio o in polvere (dopo averli fatti seccare al sole).

Piccantezza
La sostanza principale artefice della piccantezza è l’alcaloide capsaicina (8-metil-N-vanillil-6-nonenamide o C18H27NO3), insieme ad altre 4 sostanze correlate, chiamate collettivamente capsaicinoidi. Ogni capsacinoide ha un effetto diverso nella bocca, e una variazione nelle proporzioni di queste sostanze determina le diverse sensazioni prodotte dalle diverse varietà, oltre al loro contenuto. La capsaicina provoca dolore e infiammazioni se consumata in eccesso, e può addirittura bruciare la pelle, se a contatto con alte concentrazioni (i peperoncini habanero, ad esmpio, sono raccolti con i guanti). Rappresenta anche l’ingrediente principale nello spray al pepe, usato come “arma non letale”.
La piccantezza dei peperoncini è misurata empiricamente tramite la scala di Scoville, in gradi da 0 a 10, e quantitativamente in unità di Scoville, basate in p.p.m peso/peso di capsaicina e diidrocapsaicina. Il peperone dolce ha ad esempio zero unità Scoville, i jalapeños sono a circa 3,000–6,000 Scoville, mentre gli habanero arrivano a 300,000 unità Scoville. Il record per il più alto numero di unità Scoville in un peperoncino è stato assegnato dal Guinness dei primati all’ habanero Red savina, che misura 577.000 unità. Tuttavia dall’India è arrivata la notizia di un peperoncino, chiamato Naga jolokia che dovrebbe arrivare a 855.000 unità Scoville, sebbene manchi una verifica indipendente. La capsaicina pura misura circa 16 milioni di unità.
Uno dei modi migliori per alleviare la sensazione di bruciore è bere latte, mangiare yogurt o ogni prodotto caseario. Infatti una sostanza presente nei prodotti caseari conosciuta come caseina agisce da detergente e rimuove la capsaicina dai recettori nervosi.
La capsaicina si scioglie molto bene anche nei grassi e nell’alcool, quindi anche prodotti grassi o bevande alcoliche aiutano a rimuovere la sensazione dolorosa. Per le alte concentrazioni, come nell’habanero Red Savina o estratti vari, il modo più efficace è usare del ghiaccio come anestetico.

Il peperoncino in cucina
Il frutto viene mangiato cotto o crudo per la sua capacità di bruciare il palato, concentrata nella parte superiore della capsula, dove ci sono ghiandole che producono la capsaicina, la quale poi scivola lungo la capsula. Al contrario di quanto si crede comunemente, non sono i semi, ma la membrana interna che contiene la maggior parte di capsaicina: quindi è quasi inutile togliere i semi per ridurre la piccantezza del frutto.
In Italia il peperoncino è ampiamente usato e alcune regioni ne hanno fatto la base dei propri piatti regionali, come la Calabria, con la famosa “‘nduja”, la Basilicata e in generale tutto il Sud peninsulare.
All’estero il peperoncino è usato molto in Messico (nelle salse, nel chili con carne) ed in India. Le cucine indiana, indonesiana, cinese sono associate all’uso del peperoncino, sebbene la pianta sia arrivata in Asia solo dopo l’arrivo degli europei. Una volta macinato il peperoncino modifica l’intensità del gusto: il grado di piccantezza però varia non solo in base alla varietà di peperoncino scelta, ma anche in base al grado di maturazione: infatti più è maturo e più è forte. Inoltre la siccità accentua il sapore piccante.
Alcune varietà di peperoncino sono indicate per il consumo immediato, perché i frutti non si mantengono a lungo. Altre, come l’Habanero, possono essere invece essiccate e macinate. In questo modo aumenta la concentrazione di capsaicina e dunque la piccantezza. Inoltre, varie specie di peperoncini hanno aroma e sapore intenso, che si perde con l’essicazione. Sempre l’habanero, da fresco ha un intenso odore di albicocca e un sapore fruttato simile al cedro, che si attenuano alquanto con l’essicazione.

Proprietà
Il peperoncino è un condimento molto popolare, nonostante il dolore e l’irritazione che provoca. La capsaicina ha un effetto antibatterico, cosicché cibi cotti col peperoncino possono essere conservati relativamente a lungo. I peperoncini sono ricchi in vitamina C e si ritiene abbiano molti benefici effetti sulla salute umana, purché usati con moderazione.
Il peperoncino ha un forte potere antiossidante, e questo gli è valso la fama di antitumorale. Il peperoncino si è anche dimostrato utile come nella cura di malattie da raffreddamento come raffreddore, sinusite e bronchite e nel favorire la digestione. Queste virtù sono dovute principalmente alla capsaicina, in grado di aumentare la secrezione di muco e di succhi gastrici.
Il peperoncino può essere usato anche come antidolorifico in artriti e neuropatie. La sensazione di dolore prodotta dalla capsaicina infatti stimola il cervello a produrre endorfine, un oppioide naturale in grado di agire da analgesico e produrre una sensazione di benessere. Lo psicologo Paul Rozin ritiene che il mangiare peperoncini rappresenti un esempio di “rischio limitato”, come le montagne russe, dove sensazioni estreme come paura e dolore possono arrecare piacere poiché si sa che non sono effettivamente pericolose.
Altri effetti benefici del peperoncino, come il suo potere afrodisiaco, non sono stati confermati da ricerche scientifiche, sebbene la medicina Ayurvedica lo usi per il trattamento di ulcere peptiche.
Gli uccelli, al contrario dei mammiferi, non sono sensibili alla capsaicina, poiché questa sostanza agisce su uno specifico recettore nervoso che gli uccelli non possiedono. A ragione di ciò i peperoncini costituiscono il cibo preferito di molti volatili; essi costituiscono infatti una fonte di vitamina C. In cambio gli uccelli spargono i semi della pianta durante il pasto o attraverso le feci, poichè questi semi riescono a oltrepassare l’apparato digerente inalterati. Si pensa che questo tipo di relazione abbia promosso l’evoluzione dell’attività protettrice della capsaicina. È infine interessante notare come agenti chimici usati per dare un sapore di uva a bevande come la “grape soda” (bevanda frizzante al gusto di uva) diano negli uccelli un effetto simile a quello che la capsaicina dà agli esseri umani.

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Zafferano di Sardegna

Sul piano meramente agricolo la Sardegna si connota per la sua pastorizia, per l’arte casearia e recentemente per la qualità delle sue produzioni enologiche, ma da tempo … e non da poco … anche per un patrimonio di produzioni tipiche che ne hanno caratterizzato da generazioni la sua peculiarità turistica e gastronomica. Una regione povera di produzioni agricole estensive, di massa. Una terra ricca di cultura, quanto di specificità locali , apprezzate sempre più anche dai tanti stranieri che visitano l’isola durante il loro soggiorno. Lo zafferano è tra le colture di Sardegna più originali e antiche. Tra gli attuali storici che hanno saputo ben illustrare il posizionamento dello zafferano nella società e nelle dinamiche delle storie locali va citato certamente Antonio Casti. Tra i suoi ultimi scritti un dotto vademecum sullo Zafferano di San Gavino Monreale e sull’introduzione di questa spezia in Sardegna. Tra i primi documenti storici sulla presenza dello zafferano nell’area possiamo citare la Grotta della Vipera a Cagliari per le scritte sulla tomba di Attilia Pomptilia …” su tzaffaranu profumau” da parte di Cassio Filippo nel I secolo d.C. A tali primordi la vera reintroduzione produttiva va segnalata nel periodo della dominazione bizantina (VI – IX secolo) quando nell’isola una serie di monaci devoti a San Basilio coltivavano e diffondevano le tecniche di produzione dello zafferano. Un uso molto ampio dello zafferano di questa comunità di monaci che ne divulgarono oltre le utilizzazioni salutistiche, anche le grandi opportunità gastronomiche. Un ruolo non indifferente lo ebbe la comunità del Convento di Santa Lucia in quel di San Gavino Monreale, uno dei comuni maggiormente produttivi di zafferano in Sardegna e in Italia. Era uso coltivare gli orti nei pressi dei monasteri o nelle vicinanze delle case nobiliari e la sua utilizzazione si estendeva anche ad impieghi come quello aromatico e medicinale. Poco oltre anche lo stesso Ordine Francescano, successivo a i Monaci di San Basilio, favorirono la coltivazione dello zafferano di San Gavino e dei comuni del Medio Campidano, facendolo conoscere ed apprezzare oltre i confini dell’isola. La storiografia sull’uso e le tradizioni dello zafferano in Sardegna ci portano a segnalare che solo in questa regione il lessico sullo zafferano utilizzato da generazioni e delle famiglie ha una sua specificità linguistica: zafferano (tzaffaranu), Crini (le foglie dello zafferano, Ena (i pistilli), Grofu (il giorno di massima produzione dei fiori), Cuguddau (quando il fiore nelle prime ore del mattino è ancora chiuso), Furconis (peduncolo biancastro che collega i tre pistilli e che si consiglia di separarlo in quanto non contiene gli elementi essenziali presenti nei pistilli) … in concreto questa spezia entra a pieno titolo nella cultura e nelle tradizioni del popolo sardo. La Sardegna produce una gran quantità di zafferanoma molto viene utilizzato all’interno dell’isola per soddisfare la grande varietà di pietanze e di piatti che sono esaltati dalleunicità organolettiche dello zafferano sardo. Una cultura che un tempo era riservata alle famiglie benestanti , nobiliari e che invitavano i propri familiari a proseguire nelle generazioni tali coltivazioni, in quanto indice di prestigio e di considerazione da parte delle famiglie del luogo. Sono state trovati e segnalati dallo storico Casti documenti testamentari molto interessanti , in cui si disponeva che ai molti figli … e alla mia moglie venisse regolamentata la divisione dei bulbi …” Giuseppe Aru nel 1820 disponeva che le cipolle di zafferano piantate in via Oristano a San Gavino per 10 starelli dovessero andare alla moglie e il restante ai suoi 11 figli …” il prezzo era affidato ai mercatali o ai Consoli dei porti di arrivo delle merci e confrontando i soldi per libbra( 400 gr) dello zafferano rispetto ad altre spezie quali il pepe, lo zucchero, lo zenzero …  lo zafferano con i 50 soldi era la spezia più cara e ricercata. La coltivazione si è tramandata di generazione in generazione sino ai giorni nostri. La Sardegna è indubbiamente in Italia la regione maggior produttrice di zafferano il cui nucleo storico e produttivo è concentrato nei comuni di San Gavino Monreale, Turri e Villanovafranca nel Medio Campidano con altre piccole isole produttive al nord della Sardegna. Una valorizzazione di questa realtà produttiva è giunta con il recente riconoscimento comunitario della DOP (Denominazione di Origine Protetta) a tutto il prodotto dell’isola. Purtroppo ad oggi le poche e scarse rivendicazioni di tale riconoscimento da parte dei produttori rispetto alle aspettative, sono un dato di fatto, ciò dovuto per gli alti costi burocratici che non permettono di poter usufruire di tale riconoscimento. Di certo al di là degli aspetti normativi lo zafferano entra nella famiglia sarda in modo così eclatante nel periodo di raccolta dei fiori, con un coinvolgimento di vicini e parenti. Un entusiasmo che certamente coinvolge giovani generazioni e le donne, principali protagoniste di tale spezia.

 

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Radicchio di Treviso – Veneto

Il Radicchio Rosso di Treviso è una varietà di cicoria, è caratterizzato da un colore rosso scuro intenso, da striature bianche, da una consistenza croccante e da un inconfondibile gusto delicatamente amarognolo.

Si presenta in due varianti: precoce o tardivo. Il Radicchio Rosso di Treviso Precoce, meno pregiato, ha foglia più larga e sapore più amaro. Viene coltivato in campo aperto e dopo l’estate, i cespi vengono legati per proseguire la maturazione e l’imbianchimento forzato. Segue quindi, la raccolta e la toelettatura prima della commercializzazione.

Il Radicchio Rosso di Treviso Tardivo è invece assai più pregiato, in ragione della complessità del processo di produzione. Si presenta con foglie lunghe e affusolate, con una costa centrale bianca e foglie di un colore rosso-violaceo intenso. Secondo il disciplinare di produzione la raccolta dal campo aperto può iniziare solo dopo che le piante abbiano subito due brinate. Una volta raccolto (ancora con il suo fittone o radice) viene legato in mazzi e posto con il fittone immerso in vasche di acqua di falda a temperatura costante (12-15 gradi) per la fase di imbianchimento. La temperatura mite dell’acqua favorisce la ripresa del processo vegetazionale, ma l’assenza di luce impedisce alla pianta di produrre clorofilla: da qui il colore tipico e l’ammorbidimento delle note amare della cicoria. Dopo un periodo di forzatura in acqua, che varia dai venti ai quindici giorni, il Radicchio Rosso di Treviso Tardivo IGP è pronto per la toelettatura finale.

Cenni storici

La coltivazione del Radicchio Rosso di Treviso è frutto di una tradizione che affonda nei secoli. Alcune ricerche iconografiche condotte da Tiziano Temesta dell’Università di Padova (pubblicate ne: Il Radicchio di Treviso alle Nozze di Cana) hanno dimostrato come il radicchio fosse coltivato già dalla metà del XVI secolo. Lo si vede rappresentato in alcuni dipinti come “Le Nozze di Cana” di Leandro da Ponte detto Il Bassano (oggi al Museo del Louvre di Parigi). Ma il processo di produzione si sarebbe affinato solo nella seconda metà del XIX secolo. Sarebbe stato il vivaista Francesco Van Den Borre, giunto dal Belgio nel 1870 per realizzare un giardino patrizio, a portare nella zona del Trevigiano la tecnica di imbiachimento già in uso per le cicorie belga. È nell’anno 1900 che il Radicchio Rosso di Treviso raggiunge la consacrazione con la realizzazione sotto la Loggia dei Grani di Piazza dei Signori a Treviso della prima mostra dedicata ai produttori del Radicchio Rosso di Treviso e voluta dall’agronomo di origine lombarda, Giuseppe Benzi.

 

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Carciofo romanesco – Lazio

Il carciofo (Cynara scolimus) è una pianta già conosciuta al tempo degli Egizi e diffusa nell’area mediterranea, come si vince dal De Re Rustica di Columella e dal Naturalis Historia di Plinio. Tut¬tavia, secondo alcuni storici, furono gli Etruschi a praticare la coltivazione di questo ortaggio dalle varietà di cardo selvatico (Cynara cardunculus) e le raffigurazioni di foglie di carciofo in alcune tombe della necropoli di Tarquinia ne sono un’indiscutibile testimonianza. Attualmente, sono due le cultivar coltivate lungo il litorale a nord di Roma nei dintorni di Ladispoli e Cerveteri, un’area particolarmente vocata alla produzione del Carciofo Romanesco IGP: “Castellammare” (precoce) e “Campagnano” (tardiva). Il  Carciofo Romanesco, detto anche “mammola”, è grosso e con il capolino quasi rotondo, ha poco scarto ed è il più adatto per essere cucinato ripie¬no. La parte commestibile della pianta è in realtà il fiore e il cuore centra¬le chiamato “cimarolo” è il più ricercato, e di conseguenza anche il più costoso, perché più tenero e con le foglie più seriate. Molto versatile in cucina, la tradizione lo predilige “alla romana”, cotto a fuoco lento e condito con pangrattato, aglio, prezzemolo, pepe e abbondante olio, oppure alla “giudia”, tagliato a spirale in modo da eliminare la parte legnosa, fritto nell’olio con il gambo in alto e bello croccante. Il prodotto ha ottenuto L’Indicazione Geografica Protetta (IGP) nel 2002 (Regolamento CE n. 2066/02) come “Carciofo Romanesco del Lazio IGP”.

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Arancia Rossa di Sicilia

L’Arancia Rossa è giunta in Sicilia dopo un lungo viaggio iniziato presumibilmente in Cina dove si è differenziato il primitivo nucleo genetico dal quale sono derivati gli attuali agrumi. Ciò è testimoniato dai più antichi documenti nei quali si fa menzione di arance pigmentate.

Dagli inizi del XX secolo la coltivazione dell’arancia conquista la piana di Catania (bonificata dai terreni paludosi) iniziano così a presentarsi nuove varietà di arancia rossa quali Sanguinello, Moro e Tarocco.

La produzione di frutti d’arancio dalla polpa rossa è tipica di quella zona della Sicilia Orientale posta a Sud Sud-Ovest dell’Etna tra le province di Catania, Enna e Siracusa.

In nessun’altra regione dell’area mediterranea e del continente americano le cultivar pigmentate sono riuscite a produrre frutti con le pregevoli qualità che distinguono le arance rosse siciliane, quali l’intensa colorazione e l’equilibrato rapporto tra zuccheri e acidi.

Le rigide temperature notturne e l’intensità luminosa delle belle giornate invernali sono caratteristiche climatiche di quella parte della Sicilia Orientale particolarmente vocata alla produzione di arance rosse. L’abbondante dose di insolazione permette la formazione di alti livelli di zuccheri, fondamentali per la formazione del sapore, reso gustoso dalla modesta quantità di precipitazioni.

 

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Lenticchie di Castelluccio di Norcia – Umbria

Chiamata dagli abitanti di Castelluccio “Lénta“, è il prodotto rappresentativo del paese per eccellenza. L’uso di questo legume è antichissimo come dimostra il ritrovamento di semi in tombe neolitiche datate 3000 A.C. La lenticchia è una pianta annuale, che fiorisce tramaggio e agosto, appartenente alla famiglia delle leguminose. L’inconfondibile sapore, le dimensioni molto piccole, la resistenza ai parassiti e la coltivazione esclusivamentebiologica, oggi ne fanno un prodotto ricercatissimo. Viene seminata, non appena il manto nevoso è completamente disciolto. Verso la fine di Luglio primi di Agosto viene raccolta. Una volta questa operazione veniva svolta esclusivamente a mano, “la carpitura“. Affluiva manodopera dai paesi limitrofi; GualdoPescara Del TrontoSan Pellegrino, per la maggior parte donne, “le carpirine“, un lavoro faticoso e lungo. Oggi si ricorre, quasi sempre, alle falciatrici meccaniche, ma comunque i ritmi e i “rituali“, obligatori, fanno della raccolta un momento di massimo impegno per i contadini del posto.

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Pera Mantovana – Lombardia

Sei varietà per identificare un frutto pregiato, coltivato fin dal Medioevo e conservato fino ad oggi grazie a sapienti innesti e incroci.
Le varietà di Pera Mantovana coltivate sono sei: Abate Fetel, Conference, Decana del Comizio, Kaiser, Max Red Barlett e William.

Sono tutte caratterizzate da un sapore dolce più o meno aromatico ma si distinguono per il colore e rugosità della buccia:
le pere delle varietà William  hanno una buccia liscia, di colore giallo-rosato;

  • le pere Max Red hanno un colore di fondo giallo, quasi completamente coperto da  sovracolore rosso vivo, spesso striato;
  • la varietà Conference è verde-giallastra con rugginosità diffusa;
  • la pera di varietà Decana Comizio è liscia, di colore verde chiaro-giallastro e rosa ;
  • la varietà Abate Fetel ha la buccia verde chiaro-giallastra e rugginosità intorno al peduncolo;
  • la pera Kaiser possiede una buccia ruvida e rugginosa.
    Ogni varietà ha un proprio periodo di coltivazione.
    Il peso medio della Pera Mantovana varia dai 158 gr della Conference ai 260 della Abate.

La zona di produzione della Pera Mantovana IGP comprende l’intero territorio dei Comuni di Sabbioneta, Commessaggio, Viadana, Pomponesco, Dosolo, Gazzuolo, Suzzara, Borgoforte, Motteggiana, Bagnolo San Vito, Virgilio, Sustinente, Gonzaga, Pegognaga, Moglia, S.Benedetto Po, Quistello, Quingentole, S.Giacomo delle Segnate, S.Giovanni del Dosso, Schivenoglia, Pieve di Coriano, Revere, Ostiglia, Serravalle a Po, Villa Poma, Poggio Rusco, Magnacavallo, Borgofranco sul Po, Carbonara di Po, Sermide e Felonica, che delimitano un’area continua in provincia di Mantova.
La coltivazione della pera nel mantovano e soprattutto nella zona dell’Oltrepò, è una pratica molto antica. Nel 1475 rappresenta la coltura più diffusa ed importante anche se esclusiva dei nobili e degli ecclesiastici. Nei giardini dei monasteri e nei broli delle corti signorili si coltivano ed incrociano varietà diverse di pera per ottenere frutti sempre più gustosi.
La produzione però viene destinata all’autoconsumo o al mercato locale a causa della difficoltà nella conservazione e nel trasporto di questo frutto.
Dopo l’unità d’Italia e nel primo dopoguerra il necessario riassetto produttivo spinge a valorizzare le attività esistenti. La coltivazione del pero si sviluppa particolarmente grazie anche alle innovazioni tecnologiche nel settore della conservazione e dei trasporti.
Il lavoro di produzione delle sei varietà di Pera Mantovana è affiancato da una importante attività di recupero e valorizzazione di varietà locali al fine di contribuire al mantenimento del patrimonio agricolo e ambientale di quelle zone.
Nel 1998 la Pera Mantovana ottiene il riconoscimento europeo IGP e nasce il Consorzio Perwiva, che ne tutela e promuove la produzione.

La produzione della Pera Mantovana IGP è regolata da un disciplinare di produzione approvato dalla Unione Europea e avviene secondo tecniche tradizionali della zona.

La Pera Mantovana ha proprietà diuretiche, depurative, regolatrici intestinali ed è possibile consumarne anche un quantitativo elevato senza introdurre troppe calorie.
La percentuale di zuccheri contenuti è in gran parte costituita da fruttosio, per cui il suo consumo è consentito anche ai diabetici.

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Fagiolo di Sarconi – Basilicata

I Fagioli di Sarconi sono coltivati da secoli in una particolare zona della Basilicata.
La zona di produzione dei fagioli ad Indicazione Geografica Protetta Fagioli di Sarconi, comprende i territori dei Comuni di: Sarconi, Grumento Nova, Marsiconuovo, Marsicovetere, Moliterno, Monomero, Paterno, San Martino d’Agri, Spinoso, Tramutola, Viggiano, tutti situati in Provincia di Potenza.
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Questi prodotti sono caratteristici poichè fortemente legati all’ambiente di questi territori dove la disponibilità di acqua, e particolari condizioni ambientali come le basse temperature estive permettono la produzione di fagioli di elevata qualità assolutamente distinguibili dalle altre varietà esistenti.Il tipico sapore dolce di questi fagioli dipende proprio dalle condizioni descritte che consentono ai semi di mantenere una significativa concentrazione di zuccheri semplici che in tempi più lunghi rispetto ad altre varietà vengono poi trasformati in amido.La Indicazione Geografica Protetta “Fagioli di Sarconi” è riservata agli ecotipi di cannellino e di borlotto noti localmente con gli appellativi: “fasuli russi”, “tovagliedde rampicanti”, “fasuli russi”, “verdolini”, “napulitanu vasciu”, “napulitanu avuti”, “ciuoti o regina”, “tabacchino”, “munachedda”, “nasieddo”, “maruchedda”, “san michele”, “muruseddu”, “truchisch”, “cannellino rampicante”.

I fagioli ad Indicazione Geografica Protetta “Fagioli di Sarconi”, con l’eventuale specificazione del nome o dell’ecotipo locale, possono essere prodotti come baccelli da sgranare allo stato fresco o a piena maturazione per la granella secca.

 

 

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Il farro della Garfagna – Toscana

In Garfagnana il farro viene coltivato da sempre nei piccoli appezzamenti. È la base di alcuni dei principali piatti tradizionali (principalmente minestre o torte salate). La sua coltivazione aumenta sensibilmente a seguito delle indicazioni della Regione Toscana che lo censiscono quale coltivazione a rischio di erosione genetica: in poco più di un decennio, dagli anni ‘70 agli anni ‘80 si passa da poche migliaia di metri quadrati a qualche decina di ettari di coltivazioni.
Nel 1996, tramite la Comunità Montana della Garfagnana, viene ottenuto il riconoscimento europeo di Indicazione Geografica Protetta (IGP) che sancisce il definitivo recupero di questo cereale. Viene redatto il disciplinare che prevede la coltivazione del “Farro della Garfagnana” nell’area dei comuni che compongono la Comunità Montana della Garfagnana, ad una quota compresa tra i 300 e i 1.000 m. s.l.m., secondo metodi di coltivazione biologica.
Grazie a questo riconoscimento la richiesta del cereale aumenta considerevolmente. Nasce così il Consorzio Produttori di farro della Garfagnana, che raccoglie gran parte dei produttori e realizza nel 2000 un centro unico per la lavorazione, il confezionamento e lo stoccaggio del prodotto. Il Centro attualmente lavora oltre il 60% dei 2.500 quintali di farro che si producono in Garfagnana e ne cura direttamente la commercializzazione. I produttori iscritti all’Albo sono oltre 100 e coltivano circa 200 ettari per lo più situati nella parte centro-settentrionale della valle.
La commercializzazione avviene quasi esclusivamente attraverso aziende collocate nell’area; questo determina un valore aggiunto che va ben al di là del valore del prodotto e concorre a fare del farro un “prodotto immagine” dell’intero territorio

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Nayra Laise Premi Speciali – 2014

Sezione Premi speciali – Stranieri che hanno fatto del Made in Italy una Mission
Nayra Laise
Per l’ amore e il rispetto del Made in Italy che ha spinto Nayra Laise, di origini Brasiliane, a produrre le sue creazioni utilizzando “ESCLUSIVAMENTE” manodopera, tessuti, ricami e applicazioni Italiane, per aver promosso la sartorialità tricolore nel mondo e non aver mai rinunciato alla qualità e all’esclusività.

Nayra Laise – “Solo Made in Italy”
Nayra Laise è un marchio “Made in Italy” che si fonda esclusivamente sull’eccellenza della creatività e artigianalità sartoriale italiana.
Le creazioni Nayra Laise riflettono la visione di una donna molto romantica. Una donna che manifesta la sua sobria eleganza, non solo nell’ambito degli eventi sociali, ma anche nella sua normale quotidianità.
Per dare corpo a questa figura femminile atemporale, le creazioni Nayra Laise eliminano i volumi eccentrici e si ispirano alle geometrie dell’arte classica, la linearità delle quali, associata all’uso di tessuti ed altri materiali pregiati, tassativamente “Made in Italy”, favorisce l’esaltazione dell’innata eleganza della silhouette femminile.

Nayra Laise is a “Made in Italy” brand exclusively based on the excellence of the italian tailoring craftsmanship and creativity.
The Nayra Laise creations reflect the vision of a very romantic woman. A woman who manifests her understated elegance, not only in social events, but also in her daily life.
To give substance to this timeless female figure Nayra Laise creations eliminate the eccentric volumes and take inpiration from the classical art geometry, the linearity of which, associated with the use of strictly “Made in Italy” fabrics and other materials, favor the exaltation of the innate elegance of the female silhouette.

Tonino Lombardi – In memoria di…. – 2013

Born in Monteleone di Puglia, Tonino Lombardi worked to find a delicate balance between light and colour. His works show a complicated oil technique that distinguished itself for its particular, sometimes flaming brightness achieved through clever colour contrasts.
He was a cultured artist, graduated in Medicine in Naples. As we would say nowadays, he was a committed artist, a lover of music whose life and works left a great trace in history. Tired of figurative art and of its naturalistic legacy, he declared himself a follower of his beloved father and began following a path that considers art as “a pure creation of the spirit, the nature of which is just the occasion”. He soon passed to abstractionism, which through informal methods gave to his art a dynamic strength that can be seen in his graffiti whose nature and soul lead to true poetry.
His origins and the sea left a deep mark in him. His works confirm his uncommon skills, but also a point of arrival in his landscape paintings, especially for what concerns the paintings dedicated to the “Tavoliere delle Puglie”, in which the sinuous movement of his ideas is raised and perfected into a real presence.
He passed away on 21 August 2008, but his memory and his pictures will always remain because his life was full of images that will always be alive in the mind of his friends and relatives.

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Doc Italy - Tonino Lombardi

 

Nato a Monteleone di Puglia, Tonino Lombardi, ha lavorato nella ricerca di un delicato equilibrio fra luce e colore. Una pittura eseguita con un’elaborata tecnica a olio che si distingue per la sua singolare luminosità, a tratti fiammeggiante, derivata da abili contrasti di colore.
Artista colto, si laurea in Medicina a Napoli, “impegnato” (si direbbe oggi), appassionato di musica, traccia con la sua vita e le sue opere un solco nella storia dell’arte. Stanco del figurativo e della sua naturalistica eredità, si dichiara discepolo dell’amato padre, imbocca quella strada che, partendo dall’idea che l’arte “è pura creazione dello spirito di cui la natura non è che l’occasione” passa presto a quell’astrattismo che con accorgimenti informali è in grado di donare alla sua arte una forza dinamicamente attuale, che si pronuncia in graffiti in cui la natura e l’anima acquistano un volto pittorico di poeta verità.
Il luogo d’origine e il mare lo segnano profondamente, le sue opere sono una conferma delle doti non comuni dell’artista ma anche un punto di arrivo nella sua pittura di paesaggio, in particolare quella del “Tavoliere delle Puglie”, dove il moto sinuoso dell’ideale viene lievitata e perfezionata mediante una presenza reale.
Il 21 agosto 2008 è mancato ma il suo ricordo, anzi le sue immagini, perché colma di immagini era la sua vita, rimarranno sempre vive nei pensieri di amici e parenti.

Cipolla Alifana – Campania

La cipolla “Alifana” presenta caratteristiche organolettiche particolarmente apprezzate soprattutto sui mercati della provincia di Caserta e del Basso Lazio; il colore è ramato intenso, la forma è sferoidale fortemente schiacciata ai poli; pezzatura media (peso medio 200 gr fino a 400 gr); ha sapore dolce, intenso, aromatico ma non acre; ottima consistenza, polpa croccante e soda, bianca con sfumature violacee; ha spiccata attitudine alla conservazione nelle caratteristiche “‘nzerte” (realizzate intrecciando le foglie essiccate di 12-13 fino a 20 cipolle secondo le dimensioni, che vengono quindi mantenute fino alla vendita).

La riproduzione avviene per bulbilli, che vengono posti in semenzaio in agosto-settembre e quindi trapiantati in pieno campo in febbraio-marzo. La maturazione avviene in luglio – agosto; l’essiccazione fogliare avviene in campo; in una fase intermedia dell’essiccazione, con le foglie appassite, si realizza la “‘nzerta”; quindi le treccie vengono poste al sole per il completamento dell’essiccazione. La conservazione avviene su graticci realizzati in canna e posti verticalmente appoggiati a pareti, in posizione ombreggiata (pergolato o tettoia), in attesa di essere poi commercializzate, dopo un periodo di 20 – 30 giorni. All’atto della vendita le cipolle restano in genere confezionate nelle “‘nzerte” , pronte per il consumo familiare che può procrastinarsi anche per sette-otto mesi. Secondo l’esperienza degli agricoltori locali l’attitudine alla conservazione è un carattere desumibile nella fase di scelta delle piante madri il che permette di poter selezionare i bulbilli migliori a tale scopo.

Le pratiche colturali nell’ultimo trentennio hanno conservato la loro tradizionalità e sono uniformemente diffuse sul territorio in esame. Lo stesso prodotto nell’arco di tutto questo tempo ha conservato, altresì, le sue caratteristiche di qualità; le modalità di conservazione e di presentazione alla vendita restano immutate ancora oggi. La cipolla alifana per le sue caratteristiche ha trovato impiego nella cucina tradizionale locale, per la preparazione di minestre assieme a fagioli, sedano, carota, olio extravergine di oliva, dette “cipollata”.unnamed-1unnamed-2 unnamed-3 unnamed

La cipolla “Alifana” presenta caratteristiche organolettiche particolarmente apprezzate soprattutto sui mercati della provincia di Caserta e del Basso Lazio; il colore è ramato intenso, la forma è sferoidale fortemente schiacciata ai poli; pezzatura media (peso medio 200 gr fino a 400 gr); ha sapore dolce, intenso, aromatico ma non acre; ottima consistenza, polpa croccante e soda, bianca con sfumature violacee; ha spiccata attitudine alla conservazione nelle caratteristiche “‘nzerte” (realizzate intrecciando le foglie essiccate di 12-13 fino a 20 cipolle secondo le dimensioni, che vengono quindi mantenute fino alla vendita).

La riproduzione avviene per bulbilli, che vengono posti in semenzaio in agosto-settembre e quindi trapiantati in pieno campo in febbraio-marzo. La maturazione avviene in luglio – agosto; l’essiccazione fogliare avviene in campo; in una fase intermedia dell’essiccazione, con le foglie appassite, si realizza la “‘nzerta”; quindi le treccie vengono poste al sole per il completamento dell’essiccazione. La conservazione avviene su graticci realizzati in canna e posti verticalmente appoggiati a pareti, in posizione ombreggiata (pergolato o tettoia), in attesa di essere poi commercializzate, dopo un periodo di 20 – 30 giorni. All’atto della vendita le cipolle restano in genere confezionate nelle “‘nzerte” , pronte per il consumo familiare che può procrastinarsi anche per sette-otto mesi. Secondo l’esperienza degli agricoltori locali l’attitudine alla conservazione è un carattere desumibile nella fase di scelta delle piante madri il che permette di poter selezionare i bulbilli migliori a tale scopo.

Le pratiche colturali nell’ultimo trentennio hanno conservato la loro tradizionalità e sono uniformemente diffuse sul territorio in esame. Lo stesso prodotto nell’arco di tutto questo tempo ha conservato, altresì, le sue caratteristiche di qualità; le modalità di conservazione e di presentazione alla vendita restano immutate ancora oggi. La cipolla alifana per le sue caratteristiche ha trovato impiego nella cucina tradizionale locale, per la preparazione di minestre assieme a fagioli, sedano, carota, olio extravergine di oliva, dette “cipollata”.

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Centofoglie scarola venafrana – Molise

DENOMINAZIONE LATINA

Cichorium endivia latifolium.

PIANTA DI ORIGINE

Pianta annuale con cespo grosso, foglie di colore verde intenso, molto croccanti.

UTILIZZAZIONE ALIMENTARE

Viene consumata soprattutto cruda, in insalata, dopo averla accuratamente lavata, sgocciolata e asciugata. E’ ottima cotta a vapore o brasata.

Nella tradizione culinaria venafrana viene utilizzata per la classica ” fagioli e scarola” e nella “zuppa alla santè”.

COLTIVAZIONE

Si semina nella tarda primavera fino a settembre – ottobre a spaglio in semenzaio. Le piantine si trapiantano generalmente quando hanno raggiunto i 10 cm di altezza alla distanza di 30 cm tra le fila e 10-15 cm sulla fila.

NOTE

E’ ricca di potassio ed ha spiccate proprietà depurative e diuretiche.

Le foglie inoltre, hanno proprietà emolliente sull’epidermide se applicate, cotte, come cataplasma.

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Asparago violetto di Albenga – Liguria

Inconfondibile, per i turioni molto grossi e per il colore viola intenso che gradatamente sfuma scendendo verso la base, l’asparago Violetto d’Albenga è una varietà unica al mondo. Il suo colore strano non dipende dalla tecnica di coltivazione, ma è legato al suo patrimonio genetico. E c’è una ragione scientifica che ne preserva la purezza: possedendo 40 cromosomi anziché 20 come tutti gli altri asparagi, il Violetto non può incrociarsi con altre varietà (i figli sarebbero sterili) e quindi non può imbastardirsi.
In California hanno tentato di brevettarlo e fior di agronomi hanno provato a coltivarlo in Nuova Zelanda, in Australia e negli Stati Uniti, ma con scarsissimi risultati.
I terreni alluvionali della Piana di Albenga, invece, sono perfetti: grazie al profondo strato sabbioso e limoso e al microclima. Eppure, in Liguria, questa varietà, che negli anni Trenta del Novecento era coltivata su più di 300 ettari è quasi completamente abbandonata.
La coltivazione del Violetto è completamente manuale e la raccolta avviene da metà marzo ai primi di giugno: così arriva più tardi alla vendita e trova un mercato già colonizzato da altre varietà nazionali e d’importazione. Da sempre i contadini hanno escogitato stratagemmi per anticiparne anche di poco la raccolta: un tempo si scaldava il terreno con il cascame del cotone (scarto dei cotonifici) impregnato d’acqua. Oggi esistono metodi più moderni: ad esempio c’è chi sistema tubi di acqua calda nel terreno.
Le preparazioni più adatte a questo asparago morbido e burroso (e senza la fibrosità dei colleghi) sono quelle che ne esaltano la delicatezza. Niente salse coprenti, niente cotture prolungate, niente refrigerazione o peggio surgelazione. Lessati poco e intinti in un extravergine di Taggiasca offrono profumi e sapori inimitabili, ma accompagnano bene anche cibi molto delicati: pesci lessi, al vapore, al forno, carni bianche o salse raffinate.

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Albicocca Val Venosta – Trentino Alto Adige

Il clima unico della Val Venostacaldo e soleggiato, con poche precipitazioni e terreni ariosi, èideale per la coltivazione delle albicocche, chiamate anche Marillen dagli abitanti del luogo.

Di forma ovale e dalla buccia sottile e vellutata, di colore giallo scuro, tendente all’arancione, l’albicocca venostana è un concentrato dei sapori e delle straordinarie sfumature che caratterizzano l’estate in Val Venosta.

La sua polpa morbida e succosa, dal sapore pieno e lievemente acidulo, si presta bene ad essere utilizzata per la preparazione di dolci e marmellate.

In Val Venosta, la coltivazione delle albicocche avviene ad un’altitudine compresa tra i 600 e i 1.200 metri sul livello del mare a garanzia di una qualità eccellente del prodotto.

Gli esperti e gli amanti delle albicocche sono concordi nel dire che non esiste un posto migliore della Val Venosta per la crescita di questo prezioso frutto. Nonostante, infatti, sia un prodotto tipicamente del sud l’albicocca in Val Venosta, a parte il rischio di gelate in primavera, trova delle condizioni climatiche davvero ideali. Le albicocche amano il caldo, il sole e il vento, mentre non amano la pioggia, l’umidità e i terreni troppo grassi. Negli ultimi decenni, in particolare nella zona attorno a Lasa molti contadini ed aziende agricole hanno ripreso con l’antica tradizione della coltivazione delle albicocche.
Un’albicocca matura della Val Venosta possiede un colore arancione intenso e luminoso con sfumature rosse. Il frutto è incredibilmente aromatico e si scoglie in bocca. Sono adatte al consumo fresco, alla preparazione di marmellate, grappe e distillati.

albicocche OLYMPUS DIGITAL CAMERA 2zejkht albicocc_21-20130401-190910-67 Albicocche-2_20c9_3339 Festa-del-Marmo-e-delle-Albicocche-in-Val-venosta marmellata-di-albicoccheLe albicocche della Val Venosta hanno una vita media molto breve, e quindi queste squisite albicocche vengono distribuite solo nella regione Trentino Alto Adige. Per bella occasione per gustarle e’ la Festa del Marmo e delle Albicocche, che coinvolge la cittadina di Lasa in una due giorni di prodotti locali.

Mela Renetta – Valle d’Aosta

È una mela carnosa, dalla polpa di color bianco crema, mediamente succosa, dal sapore acidulo.
È ricchissima di antiossidanti e vitamine. Il suo aroma caratteristico la rende un ingrediente perfetto in cucina. Ideale per insaporire le insalate, per accompagnare la carne ed è particolarmente indicata per la produzione di torte e frittelle.
La renetta è simbolo della tradizione frutticola valdostana, grazie al particolare microclima che caratterizza la Valle d’Aosta con estati secche e soleggiate favorendo un’eccellente maturazione delle mele senza particolari rischi di malattie
e permettendo l’ottenimento di un prodotto sano e genuino.
La buona esposizione al sole contribuisce alla colorazione tipica della mela di montagna ed al suo aroma intenso e gradevole.

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Luigi Bruno – Una vita per la Moda – 2013

Stilista partenopeo che ha celebrato 30 anni dedicati alla moda; un percorso fatto di ingegno, sacrificio, sperimentazione, creatività, al fine di garantire al marchio “Luigi Bruno Haute Couture” la sua primordiale accezione “Alta Moda”, riconquistando il modello delle memorabili Maison Italiane.

Ricerca nei tessuti, nei volumi, nei colori e nelle forme, l’arte di comunicare emozioni su tele fatte di pregiate sete o classici pizzi, opere uniche e inimitabili che rispecchiano la sensibilità dello stilista in ogni fase della sua vita.
Le creazioni di Luigi Bruno sono il connubio perfetto tra emotività del designer tendenze del settore, lo Stilista pur studiando il mercato non ha mai dato a politiche commerciali la possibilità di corrompere la sua arte ed il suo stile; la realizzazione delle sue mise completamente artigianale, lo studio minuzioso di ogni più piccolo dettaglio, la pregevolezza dei materiali, l’utilizzo di cristalli swaroski, pietre e ricami preziosi sono elementi imprescindibili che caratterizzano ogni sua collezione.
Luigi Bruno, da grande esteta qual è, interpreta le mode e le correnti con raffinatezza, classe, stile ed eleganza, il suo talento ha l’obiettivo di rendere ogni donna “BELLA” in grado di piacere ma soprattutto di piacersi.